Sono due mondi che su di me hanno sempre esercitato un grande fascino, quelli di cui sto per raccontare. Il primo fa parte della mia vita praticamente da sempre, ed è quello costituito dalla grande comunità cinese che popola la mia città, a fianco della quale sono cresciuta. Vedo fin da bambina le ricchezze, i colori, la vitalità e le immense difficoltà di una realtà tanto forte quanto complessa. Di rado, mi è capitato di vedere un vero incontro fra quella realtà e quella da cui provengo io, per mille ragioni diverse. Non parlerò di economia, né di lavoro o di altri argomenti legati a questa convivenza difficile di cui piace tanto parlare in giro, particolarmente in questi giorni, da italiani non sempre consapevoli, in maniera più o meno superficiale, perché non sarebbe questo il luogo adatto, ma soprattutto perché non credo di esserne davvero in grado.Il secondo è lo straordinario mondo del teatro, che non ho mai esplorato davvero, limitandomi troppo spesso ai testi, e che ho sempre ritenuto un’arte magica, forse la più magica fra tutte. Il mio nome dovrebbe suggerirvi qualcosa a riguardo.
Eccovi spiegata l’emozione di quando ho saputo che sarei andata nella città che ormai mi ha adottata, Bologna, per conoscere meglio un progetto nato a Prato lo scorso anno – non chiedetevi perché tutto ciò sia avvenuto nella straniera Bologna, son cose da studenti! - per favorire l’integrazione fra ragazzi cinesi e italiani: un laboratorio teatrale che ha coinvolto giovani di entrambi i Paesi. Il risultato è stato uno spettacolo riadattato, secondo una rivisitazione personale del regista, da “L’anima buona di Sezuan” del tedesco Brecht, mantenendo l’ambientazione originale, la città cinese simbolica testimone delle più basse forme di sfruttamento dell’uomo per mano di altri uomini, e la tematica del grande conflitto fra Bene e Male. “L’angelo dei sobborghi” è andato in scena nella primavera di quest’anno a Roma e successivamente a New York (rispettivamente ad Aprile e Maggio), dove l’intera compagnia ha vissuto in prima persona l’esperienza di una grande città dove l’integrazione da parte di gruppi etnici diversi si trova ad un livello più avanzato rispetto a quanto siamo abituati qui. Prato ha ospitato l’ultima tappa, poche settimane dopo. I particolari interessanti legati a quest’esperienza sono tanti. Uno, fra i miei preferiti, è la scelta linguistica, in quanto tutti i componenti, compresi quelli che per la prima volta si avvicinavano alla lingua, hanno recitato le battute in cinese: lo scopo era quello di invertire le parti per una volta, mettendo i ragazzi pratesi di fronte alle (gigantesche, credo) difficoltà legate alla lingua cinese per quanto riguarda…beh, tutto. Un piccolissimo passo per comprendere meglio il problema della comunicazione fra le due parti. Un altro fa un po’ gossip ma ve lo dico lo stesso: uno dei ragazzi italiani che hanno partecipato decise, prima ancora di buttarsi in quest’avventura, di studiare le tradizioni e la lingua cinesi perché spinto da un’iniziale ostilità nei loro confronti. Un bell’esempio, raro, con cui chiudere.
Un breve post-scriptum che si allontana dall’argomento, ma a cui tengo: un pensiero a tutte le vittime della tragedia avvenuta in via Toscana a Prato, domenica 1 dicembre.
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